La guerra di Piero, un testo struggente e allo stesso tempo evocativo, scritto da Fabrizio De André nel 1964 sembra cantare l’attuale guerra che si sta combattendo in Ucraina: russi contro ucraini, soldati contro soldati, uomini contro uomini.
Forse perché le guerre si assomigliano tutte e poco conta che ci troviamo nel 2022, la guerra ritorna, in territorio europeo, non lontana da noi e la si combatte come la si combatteva nella lontana seconda guerra mondiale.
Improvvisamente Kiev, la capitale d’Ucraina, una città abbracciata dalla globalizzazione, moderna con i grattacieli e gli hotel di lusso pare sia stata riportata nel vecchio scenario preparato da un fantasma, all’epoca sconfitto, la ex URSS. L’Ucraina invasa da carri armati e militari impazziti che sparano sui civili per onore della conquista. E così la nebbia alimentata dagli spari e dalle bombe, il puzzo di bruciato che fuoriesce dalle carcasse di auto fatte esplodere e abbandonate lungo le strade e dagli edifici diventati ormai gli scheletri di questo scenario apocalittico. Tutto ciò non ha niente a che vedere con la tecnologia avanzata e che comanda nelle nostre case, non ha niente a che vedere con il nuovo mondo in cui sono state brevettate perfino le auto volanti.
Questo è il futuro che i nostri nonni immaginavano da ragazzini magari anch’essi nei bunker sotterranei quando la sirena annunciava il prossimo bombardamento.
I telefoni senza fili in cui possiamo addirittura videochiamarci e accorciare le distanze, oggi ci mostrano un mondo che tutto sommato non è cambiato, oggi possiamo vedere ancora i bunker, i rifugi per scappare dai bombardamenti e che adesso ci è finito il popolo ucraino che resiste e che non vuole lasciare il proprio paese, minacciato dall’invasione russa.
In questo futuro la guerra la si combatte come nel passato e la paura la fa da padrona.
La prima volta che ho ascoltato la ballata di De André ero poco più che una bambina, mio padre mi spiegò il significato del testo e improvvisamente quel campo di grano e quella distesa di papaveri rossi che nel mio immaginario di bambina rappresentavano campi in cui poter correre e godere di attimi di felicità, si trasformarono in un luogo drammatico, in un camposanto in cui il povero soldato Piero ha chiuso gli occhi per sempre.
Ma la guerra all’epoca la vedevo così lontana, che neanche mi sfiorava l’idea che un giorno avrei assistito a un episodio analogo. Oggi mi si gela il sangue ascoltandola, due soldati, due nemici ma prima di tutto due uomini, impauriti minacciati dal colore della divisa dell’altro, si trovano faccia a faccia, sprovveduti, intimoriti; Piero prova a non sparare, forse stanco degli orrori a cui ha assistito e da tutti i cadaveri che si porta sulla coscienza mentre l’altro terrorizzato, non gli ricambia la cortesia e imbracciata l’artiglieria gli spara.
Il Piero di De André, incarna perfettamente il fallimento che si cela dietro la guerra, il fallimento umano, mentre la natura resta ferma ad assistere con i suoi meravigliosi campi di grano, le rose, i tulipani e i papaveri rossi, luogo in cui giacerà il soldato freddato e a cui è stato negato il diritto alla vita. E dell’altro soldato di cui non sappiamo il nome, ma che speriamo fino alla fine della canzone in un atto clemente non ne sapremmo mai quale sarà il suo destino, ma ne percepiamo la paura e la fatidica retorica che si trova alla base di ogni guerra: “morte tua vita mia.”
E quindi di nuovo soldati contro soldati, uomini contro uomini, russi contro ucraini mentre nei palazzi dormono i criminali.
Di Claudia Esposito